“PRINCIPE SENZA TRONO”

Non è da me assistere in maniera passiva.
E' da me, invece, pormi interrogativi, o comunque leggere fra le righe.
Fra le righe di vite fatte di eccessi. Di troppo amore e di cadute rovinose.
Con orgoglio, fierezza, forse un pizzico di presunzione, ma sempre per tanto, troppo, amore.
Giuseppe Giannini è stato ospite del programma televisivo "Atuttocalcio", in onda ogni venerdì sera, alle ore 22.55, circa, su Rai Due.
Giannini, come tutti saprete, è stata una bandiera della Roma.
Di quella Roma dalla seconda metà degli anni '80 sino al 1996.
Il numero 10, il Principe. Figlio della Roma giallorossa. Espressione della Curva Sud.
Indomabile, giocatore innovativo. Forse, in carriera, abbia vinto meno di quanto meritasse, ma comunque, sia stato uno dei pochi a lasciare il segno, prima che iniziasse l'era Totti.
E d'altronde Giannini e Totti, proprio a metà degli anni '90, si siano scambiati il testimone.
La Roma del passato che lasciava spazio a quella Roma che, agli albori del nuovo millennio, avrebbe conquistato il suo secondo scudetto.
Giannini, folta capigliatura, idolo di molte tifose, è stato anche un'icona nel Mondiale di Italia '90. Cruccio di una generazione consapevole che quell'edizione internazionale si sarebbe potuta tingere di azzurro, se al San Paolo, se Caniggia, se Zenga, se insomma…
Poi, però, venerdì scorso, ho ritrovato di fronte a me un altro Giannini.
Non c'era più la capigliatura di un tempo, ma non è questo il punto.
Le sue parole mi hanno invitato a delle riflessioni.
Le parole di un uomo che non ha nascosto che la sua indole dirompente abbia pregiudicato il suo percorso nel mondo del calcio, una volta dismessi gli abiti da giocatore.
Ha raccontato, rapidamente, di un litigio con Franco Baldini, di una crepa insanabile con l'allora Presidente, Franco Sensi, e le porte di Trigoria chiuse per sempre.
Un girovagare da allenatore in club con seri problemi economici.
Mancanza di progettualità, e soldi tirati fuori di tasca propria per consentire l'ordinaria amministrazione.
Ed ora un ruolo dirigenziale nel Monterosi Tuscia, squadra di serie C.
La sensazione prevalente è quella del rammarico. Di ciò che poteva essere e non è stato.
Anche se, il Principe rivendichi con orgoglio che, tuttora, andando in giro per la Capitale, incontri gente che per lui spenda, solamente, parole di stima, affetto e riconoscenza.
Ed è probabilmente questa, la sua vittoria più importante.
La vittoria di un ex calciatore che in carriera abbia trionfato meno di quanto meritasse, ma decisamente in grado di rappresentare quel tipo di giocatore moderno, a tutto campo, che oggi farebbe le fortune di molti allenatori.
Visionario ai suoi tempi, in quella serie A di gran lustro a cavallo fra i ruggenti anni '80 e i '90.
Poi l'addio dalla Roma, un breve passaggio in Austria, nello Sturm Graz, nel Napoli di Mazzone ed infine il Lecce.
Un'altra compagine dai colori giallorossi, ma mai paragonabili a quel giallorosso della Lupa che tutt'oggi scorra nelle vene di Giuseppe Giannini.
Un uomo dal carattere verace, di sicuro non accondiscende a compromessi, ed allora emarginato dal calcio dalle luci sfavillanti e dagli ambiti palcoscenici della serie A.
Un mondo usa e getta, in cui gli errori vengano fatti pagare con estrema severità, cancellando le gesta di quando si era paladini di una fede.
Il cinismo e i personalismi, capaci di strappare pagine di storie.
Il cinismo e i personalismi, capaci di sottrarre una poltrona anche al Principe.
Il Principe proveniente dal Quartiere Trieste, capopopolo di quella Roma brillante, non vincente, ma anima pulsante della sponda giallorossa del Tevere, di quel tempo.
Lorenzo Cristallo